Ricominciamo dai vostri diritti per capire insieme che cosa possiamo fare per migliorare situazioni che non ci piacciano o semplicemente per conoscere perché crediamo che la conoscenza a volte salva e ci permette di accendere una lampadina che illumina momenti in cui lo sconforto prevale.
Quindi noi siamo qua, indicateci gli argomenti che più vi interessano, vi preoccupano o semplicemente vi incuriosiscono….questa rubrica è creata a vostra misura
Oggi parliamo dei lavoratori autonomi “a partita iva”.
Il Codice Civile (che raccoglie le principali norme giuridiche del nostro ordinamento) disciplina il lavoratore autonomo nell’art. 2222 c.c. e lo definisce come la persona che si obbliga a compiere verso corrispettivo un’ opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio o senza vincoli di subordinazione nei confronti del committente.
Esso identifica dunque l’attività di lavoro dei liberi professionisti e dei lavoratori autonomi manuali, con esclusione delle figure imprenditoriali e necessita dell’apertura di partita iva.
Il lavoratore autonomo si differenzia rispetto a quello subordinato in quanto non si obbliga direttamente a mettere a disposizione la propria forza lavoro per un determinato tempo in un determinato luogo ma garantisce al “committente” (ossia a chi gli affida il lavoro specifico) il raggiungimento di determinati risultati entro una certa data.
La famosa riforma “Fornero” ha introdotto alcune disposizioni volte a contrastare il fenomeno delle “false” partita iva, ossia quelle tipologie di rapporto di lavoro che sotto la forma di apparenti prestazioni di lavoro autonomo celano in realtà veri e propri rapporti di dipendenza.
Sono state cioè introdotte delle specifiche presunzioni al verificarsi delle quale si ritiene automaticamente che il rapporto di lavoro non debba inquadrarsi nella tipologia di lavoro “autonomo” ma in quella di rapporto di collaborazione coordinata o continuativa ovvero di rapporto di lavoro subordinato.
In particolare devono esistere almeno due dei seguenti presupposti;
1) la collaborazione con il medesimo committente deve avere una durata superiore a otto mesi annui per due anni consecutivi (criterio temporale);
2) il corrispettivo derivante dalla collaborazione, deve costituire più dell’80 % dei corrispettivi annui complessivamente percepiti dal collaboratore nel corso di due anni solari consecutivi (criterio reddituale);
3) il collaboratore deve disporre di una postazione fissa di lavoro presso una delle sedi del committente ( criterio organizzativo).
Se si verificano congiuntamente due di tali presupposti il rapporto di lavoro deve considerarsi come contratto di collaborazione coordinata e continuativa (circa la attuale qualificazione di tale tipologia contrattuale aspettiamo l’approvazione definitiva del job acts) se poi manca anche la chiara e precisa indicazione del progetto (che deve necessariamente essere indicato nei contratti di collaborazione coordinata continuativa) il contratto deve automaticamente qualificarsi come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
E’ evidente che tali differenti qualificazioni implicano delle conseguenze sotto il profilo previdenziale di cui il datore di lavoro dovrà necessariamente farsi carico.
Infine, si precisa che sono esenti dalle presunzioni di parasubordinazione le prestazioni lavorative che presentano uno dei seguenti caratteri:
1) si caratterizzano dal possesso di competenze teoriche di grado elevato acquisite attraverso significativi percorsi formativi, ovvero da capacità tecnico-pratiche acquisite attraverso rilevanti esperienze maturate nell’esercizio concreto di attività;
2) siano svolte da soggetti titolare di un reddito annuo da lavoro autonomo non inferiore a 1,25 volte il livello minimo imponibile stabilito annualmente dall’INPS
3) sia svolte da professionisti iscritti in apposti albi professionali.
Vi ritrovate in situazioni simili a quelle indicate?