Elogio della ridda selvaggia.
Così potrei intitolare questa mia recensione. Celebrazione della vivacità che sconfina nell’esagerazione. Storia di un viaggio interiore nella rabbia e oltre essa.
Questo è stato dal 1963 al 2018, per milioni di lettori, “Nel paese dei mostri selvaggi”, capolavoro di Maurice Sendak che dal pubblico non poteva che essere pazzamente amato o rigettato con un certo fastidio.
Le grandi storie sono così. O le ami o le odi.
Per le opere straniere, complice dell’impatto sui lettori è anche la traduzione. Ci pensiamo troppo di rado a quanto possa pesare il lavoro di un traduttore. Ce ne accorgiamo quando, all’improvviso, la magia di un libro ai nostri occhi viene a mancare, quando ci ritroviamo smarriti tra parole nuove che ci appaiono strane, spoglie o semplicemente diverse.
Questo è quel che è successo a me a gennaio 2018, quando questo meraviglioso classico è stato ripubblicato, dopo lunga e trepidante attesa, in una nuova traduzione.
Non sono solita muovere critiche, ma devo ammettere che questa nuova edizione non ha incontrato il mio favore. Anzi, un pochino mi ha delusa.
Sfogliando le pagine, osservo le immagini potenti e forti di Sendak; guardo il viso del piccolo Max che, indiavolato, scorrazza per casa e combina tutto quel che gli passa per la testa, si spinge fino a dove lo conduce la sua inventiva, fino a esagerare.
Poi, sgridato dalla mamma, rimugina nella sua stanza e la sua rabbia cresce, brulica come una foresta la sua stizza, incontrollata e incontrollabile.
È un bambino. È vivace, non conosce il limite, è sfrenato e irruento, furbo e sfacciato. È selvaggio, come chiunque sia nato libero e non sappia sempre scendere a patti con noiose regole.
Ecco Max, che parte sulla sua barchetta e approda sull’isola dei mostri selvaggi, li doma, ne diviene il capo. Ecco, finalmente, che si scatena in un attimo l’inarrestabile ridda selvaggia. È una splendida traduzione, per me, quella che sceglie Antonio Porta, scrittore e poeta.
È lessicalmente e semanticamente azzeccata nel suo rendere la straordinarietà del momento con un termine raro, d’eccezione. Non è semplice rabbia, non è confusione o finimondo. È qualcosa di roboante, rumoroso, spericolato. È scalpiccio di piedi e grida a piena gola; dimenare di braccia, criniere e piume; fruscio di foglie spostate con violenza e rami spezzati; odore di polvere che si alza dal suolo. È notte fresca sulla pelle accaldata e fiato grosso e furia che esce da ogni poro della pelle per scivolare via e lasciare posto alla stanchezza dopo lo sfogo, al sollievo, al silenzio, alla pace.
Questo a me trasmette quella vecchia, tanto amata traduzione. Imperfetta. Non sempre fedele al senso letterale, molto più alle sensazioni che infondono in noi le immagini. Tremendamente, paurosamente, poetica. Profonda e vibrante come lo sono le illustrazioni di Sendak, così vivide da parlare da sole, raccontando una storia che travalica, ora e sempre, qualunque scelta lessicale, amata o meno amata.
Con questo non me ne voglia chi osanna a piena voce la nuova traduzione, che certo è accurata e piacevole, sicuramente anche più comprensibile dalle nuove generazioni. Ma per me, lettrice sentimentale e innamorata di quella prima e replicatissima edizione, non è la stessa cosa.
Max, nella vecchia o nella nuova versione (che, ricordiamolo, restano comunque mere traduzioni, per natura mai del tutto aderenti a quanto pensato e scritto dall’autore), continuerà comunque a tornare nella sua stanzetta a bordo della sua barca rossa, stanco, avvolto nel suo costume da lupo e nella nostalgia di casa e della mamma, dopo aver messo a cuccia i suoi mostri, che lo amano tanto da volerselo mangiare, e aver acquietato assieme a loro la sua rabbia di bambino che si scalda oltre ogni misura per un capriccio, per poi dimenticarsene poco dopo.
Questa storia non smetterà di colpire la fantasia di lettori e ascoltatori come ha fatto dal 1963 ad oggi. Forse è solo questione di tempo, di abituare l’orecchio a suoni e sensazioni nuove. Forse. O forse continuerò a preferire e amare quelle parole di Antonio Porta, come si ama in modo dolcemente irrazionale una vecchia bambola consunta per i molti pomeriggi passati a giocarci o un’automobilina leggermente sbiadita ma ancora bellissima, a cui guardiamo con struggimento e nostalgia, come a qualcosa di irrimediabilmente passato, ma a cui non sapremo mai e poi mai rinunciare.
Buona lettura
Nel paese dei mostri selvaggi
[Maurice Sendak, storia e illustrazioni. Babalibri, 2002. Età di lettura: dai 4 anni]